domenica 6 gennaio 2013

I ZOMBI NOSTRANI


La vogliamo complicare un po’.... Mettiamola così..... Dopo anni di depresse, alcolizzate, ansiogene, criminali e sempre, ma ripeto sempre, donne/uomini sull’orlo del suicidio avete conosciuto lei/lui.... Tratti delicati, timida eppure furba, sobria ma con un quid in più d’eleganza, addirittura un buonissimo profumo (che ovviamente non sapete riconoscere). Vi preparate il discorso, una così è laureata in filosofia e studiate l’introduzione a Durkheim (senza sapere che è un sociologo), vi fate pure prestare venti euro per comprare due robe nuove in sconto da PiazzaItalia. Non potete sbagliare, ne va di un’intera esistenza di fallimenti. Lei decide il locale, lei decide da bere, quando al bancone state per entrare in confidenza e le vorreste raccontare la vostra visione del mondo, lei vi avvisa, tra poco ci sarà un concerto, “uno dei miei gruppi preferiti”.
Cantautorato francese, come minimo, pensate. E il mondo, come lo credevate, si stravolge: due giganti dall’aspetto per nulla raccomandabile salgono sul palco, una luce rossa sullo sfondo parte e staglia braccia indemoniate che massacrano una batteria e altre che strangolano un sax. Un mantra pazzesco vi prende alla gola, lei si dimentica chi siete, vorreste parlarle, salvarla da quel delirio ma i decibel vi impediscono di emettere suoni, la scorgete che si allontana sempre più verso la soffocante luce del palco, inghiottita da pericolosi sonnambuli che infettati dalle note dei Mombu (non a caso l’album si chiama Zombi), stanno fissi, abbacinati, rapiti, fino a quando la musica non termina e si ritorna al mondo dei vivi... ma nessuno a quel punto ricorda più niente, con i due immensi sciamani spariti... e certamente non sarete voi, quella notte, a scopare.
Tutto ‘sto preambolo per raccontarvi i seri rischi che correte a un concerto dei Mombu e per dire che sono qualcosa di più di un gruppo sperimentale tribal avanguardista post-free jazz metal doom o tutti i cazzi che volete, sono un duo che se la giocano su più fronti; ovvio non margheritine e poesie al tramonto, ma nemmeno un saggio monografico per gli appassionati di heavy metal. Di certo è un gruppo che fa impazzire i professionisti della recensione, tormentati fra il riportarli a un “già ascoltato” meno spirituale e più prevedibile, o a un estremo canovaccio d’improvvisazioni, tipico dei musicisti senza terra e suscettibili ad ogni critica. Con Mombu c’è (ci provo pure io, col minimo però) un ritorno a spigoli vivi e all’uso della pietra, il ripristino dell’esperienza selvaggia dopo la tecnologia – quindi molto studio e non improvvisazione – in cui gli strumenti sono, innanzitutto, un mezzo per inviare messaggi di natura ipnotica da condensare in, appunto, spazi tribali della mente. Brutto coglione, sono caduto nella trappola della fantarecensione. La verità è che, ascoltandoli in macchina, in mezzo al pauroso traffico delle 13, non ho avuto la tentazione di uccidere nessuno anzi, proprio quel trance ha evitato la mia Columbine personale. Tutto qui? Vi pare poco?
Ora i Mombu, Luca T. Mai saxbaritono (ex Zu) e Antonio Zitarelli (dei Neo), hanno inciso con il chitarrista Paolo Spaccamonti per la collana In the kennel dell’etichetta Goatman Records, ilvolume 2. Per i meno scafati una chitarra restituisce un disco più mansueto (per dire, visto che comunque l’orbita in cui gira quest’incontro è quella dei Black Sabbath), e live si nota. È ridondante dirlo ma... spaccano.
Facciamo due chiacchiere con i due energumeni in questione, Luca (L) e Antonio (A).
Quello che proponete, di primo acchito, parrebbe frutto di una positiva improvvisazione, mi raccontavate di quanto studio invece c’è alla base, qual è stata la parte più difficile dell’operazione Mombu?
A: “In genere una 'relazione' prende origine da un’attrazione chimica, intellettuale o semplicemente nasce per qualche magia di cui non conosciamo la provenienza. La cosa succede e poi in corso d’opera si costruisce, questo è quello che ho visto e quello che continuo a vedere nell'atteggiamento dell’uomo che si approccia a qualsiasi cosa. Con Luca ci siamo conosciuti, studiati, poi abbiamo individuato e definito l’IDEA musicale. Infine ci sono stati i sacrifici fisici per concretizzarla in musica, cioè la costruzione di strutture ferme e rigide dentro le quali poterci muovere il più liberamente possibile, cercando di esprimerci al meglio, con la ferma intenzione di non lasciar sfuggire il dettaglio".
Nei Mombu, fra l’altro, si possono sentire le arie tenebrose e incalzanti dei riti voodoo attraverso una commistione di jazz, punk, blackmetal, afro, doom metal... Insomma tutta roba che fra loro si concilia poco, soprattutto in Italia dove la musica, rispetto ai generi, è molto settoriale. Le prime volte che vi hanno recensito o ascoltato, come vi hanno classificato? (Sempre ce l’abbiano fatta).
L: “Se a volte abbiamo dichiarato che facciamo voodoom oppure afro grind è solo per dare una direzione a chi non sa che musica suoniamo, ma poi capita di accorgersi con le definizioni si crea più confusione, 'afro grind?? ahh!!!...' e vedi aprirsi una rosa di Gerico negli occhi dell'interlocutore. La definizione che mi ha più divertito e infastidito al contempo è stata 'disco d’improvvisazione', se pensi che la prima cosa che decidemmo prima di Mombu fu: 'non facciamo un disco tipo improvvisazione anni '70...', a quel punto significa che non ti sei preso la briga di ascoltarlo nemmeno due volte".
A: “Il fascino che abbiamo per le culture antiche è notevole, ed è chiaro che l’Africa sembra essere una calamita puntata verso di noi. Il voodoo e tutte le tradizioni/religioni antiche, anche se mescolate con quelle più moderne, sono come un dialetto che cambia di paese in paese pur mantenendosi ancorato a uno stesso cordone ombelicale; ciò che muta è semplicemente l’interpretazione, che sia fonetica, pratica o altro. Ecco, crediamo che il metal sia tutto questo, il nostro tentativo è proprio quello di mescolarlo a una realtà la cui forza attinge probabilmente dallo stesso fuoco. Le etichette che ci hanno dato (afro/grind, afro/metal, voodoom, ecc...), non sono altro che l'interpretazione fonetica data al riscontro pratico della nostra musica".
Ora avete anche un nuovo progetto, gli Spaccamombu, in cui c’è lo zampino della Goat Man Records che vi ha fatto incontrare con il chitarrista torinese Paolo Spaccamonti per il secondo capitolo di In The Kennel, cosa si differenziano essenzialmente dai Mombu? Ci avete pensato a una chitarra per i Mombu?
L: “Spaccamombu è stata l'occasione per mettere in luce uno dei nostri tanti lati oscuri. Con Paolo ci siamo subito intesi, c’è bastato pronunciare le parole 'Black Sabbath'! Mentre con Mombu lavoriamo sul beat e quindi su una pulsazione regolare, con Spaccamombu ci divertiamo a spostare i tempi affinché la musica che facciamo non diventi la solita solfa che ascoltiamo in giro. Tutto questo non perché vogliamo per forza essere originali, ma perché ci viene naturale, e soprattutto ci diverte. Quando iniziammo con Mombu ci immaginavamo di mettere tanti percussionisti e anche una chitarra, poi per motivi di tempo, disponibilità e altro, abbiamo deciso di partire in due, ma quell'idea rimane, l'abbiamo usata sul primo disco, su Zombi e anche sul nuovo Niger, in uscita a febbraio".
...Che ovviamente siete pregati di inviarmi... I vostri concerti, come quello di questa sera, sono una bomba di energia dove riescono a dialogare perfettamente sax, batteria e chitarra, ho visto diverse vostre esibizioni e sono sempre impeccabili, mi raccontante un concerto andato male?
L: “Ti racconto quest’episodio capitato un anno fa: prima di un concerto il promoter locale ci porta a casa dei suoi genitori, famosi per produrre prodotti alimentari casarecci e cucinare benissimo, e soprattutto il padre, noto per la sua cantina piena... Sapendo quello che ci aspettava, ho pensato di rendermi antipatico dicendo che non bevevo, Antonio invece, per fare gli onori di casa, s’è fatto qualcosa come due o tre litri di vino. Più tardi, a concerto iniziato, sento delle stecche ma non gli do peso, poi durante un assolo di batteria mi accorgo che qualcosa non va, mi giro e lo vedo intento a recuperare bacchette a destra e a manca completamente rubizzo! Avrei voluto ridere, ma siccome mi piacciono gli scherzi, a fine concerto avvicino Antonio, mortificato per l'accaduto, annunciandogli che quello appena terminato era il suo concerto da fine carriera... da allora questa frase è rimasta, e la usiamo per prenderci in giro”.
Siete molto presenti nella scena internazionale, a gennaio i Mombu saranno in Turchia, cosa cambia suonare all’estero, anche rispetto al pubblico? In Italia non c’è un gestore di locale che non si lamenti del calo delle presenze ai concerti...
A: “Credo che tutto dipenda da quanto sia diffusa e supportata la cultura. Quando si suona nel Nord Europa, quello che colpisce è l'attenzione del pubblico (nonostante passi più musica da quelle parti che da noi in Italia), qui invece quello che emerge è la generale apatia, la mancanza di idee da parte di chi ha in mano la cultura, il music business, i promoter, i giornali, le agenzie di booking. Viviamo in una sorta di ipnosi generale in cui ci fanno credere che la merda sia buona da mangiare, che i Negramaro siano un grande gruppo rock, Allevi un grande compositore e Zucchero un grande interprete".
Vi siete fatti un’idea di cosa, nel resto d’Europa, pensano della scena musicale alternativa italiana? Già che venite da Roma, mi fareste un quadro sulle nuove tendenze della capitale che vi sembrano interessanti?
L: “La maggior parte delle persone con cui ho parlato in questi anni, da chi viene ai concerti, ai promoter, ai distributori, sono colpite dal tipo di linguaggio musicale che è maturato in Italia più che da altre parti, a cominciare dagli Zu, poi i Neo, Squartet, Tribraco, Nohaybandatrio, eccetera. A Roma si è sviluppato maggiormente questo linguaggio che si potrebbe definire, se proprio lo vogliamo definire, Jazz avant core metal, iniziato 12 anni fa da Zu, e poi proseguito con le altre band appena citate, gruppi che colgono nella musica una modalità di espressione ad ampio spettro".
Musicalmente parlando, vedete distanti Roma e Milano? Non rimane troppo chiuso l’ambiente romano?
A: “No, non credo. Non generalizzerei. Direi piuttosto che Roma ha sempre avuto una connotazione molto politica anche nella musica rispetto ad altre città. Ci si formava nei centri sociali, tuttora è lì che si suona ed è lì che si dà supporto ai gruppi, magari non come anni fa, ma molti hanno questo background. Per un periodo a Roma c'erano solo gli squat che proponevano musica interessante, tanto che tutta la scena hardcore USA è passata dal Forte Prenestino, compreso Henry Rollins. Milano ha una buona posizione geografica, è un crocevia per chi è in tour in Nord Europa e questo permette un gran passaggio di musica".
Con Mombu fate una media di tre concerti alla settimana in Italia e sicuramente dal vivo siete una garanzia, cosa credete che vi impedisca di spaccarvi meno la schiena? Cioè, nel nostro Paese, si è pronti per Mombu?
"Se in Italia legalizzassero la marijuana e i funghi allucinogeni, allora saremmo in cima alle classifiche e ciò ci permetterebbe di fare meno concerti, e a tutti di stare tutti un po' più rilassati e con tante storie incredibili da raccontare, ma siccome viviamo in un paese clerical-corrotto tutto questo non potrà mai succedere, quindi noi continuiamo sulla nostra strada, e non ci dispiace affatto".
Siamo alla fine, la domanda più importante chi cazzo paga tutte ‘ste birre?
Ma si girano dall’altra parte ed io cerco l’uscita di sicurezza. Vabbè, questa gente era proprio quello che ci voleva per ricacciare senza scrupoli, lontano, i logori sentimentalismi natalizi. Candele accese sì, ma per riti voodoo e concerti di Mombu e Spaccambombu.

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