In occasione
dell’uscita in Home Video di Extinction – Sopravvissuti, compiamo un
breve excursus nel cinema di genere, in particolare horror e
fantascienza, alla ricerca delle pellicole più indicative che hanno
saputo raccontare delle epidemie, costruendo un immaginario apocalittico
che ha trovato terreno fertile nel cuore del pubblico, indebolito delle
proprie sicurezze in una società dove virus e malattie hanno provocato
dolore e morte.
Partiamo da un grande classico come La notte dei morti viventi, dove l’epidemia è provocata dall’inspiegabile ritorno in vita dei defunti, ghiotti di carne umana.
Il film, uscito nel 1968, divenne in breve tempo un cult e fece da
vero e proprio apripista agli zombie movie, nonostante non fu la prima
pellicola a trattare il ritorno in vita dei non morti. Il canovaccio
ideato dal regista George A. Romero
ha subito nel corso degli anni numerosi saccheggi pur mantenendo un
fascino immutato, grazie anche alla non troppo velata critica della
società americana dell’epoca, dimostrando come anche il genere horror,
spesso relegato a cinema di serie B, potesse imporsi come specchio della
condizione umana, tra arroganza, debolezza e paura.
In
fondo sono gli stessi umani a decidere il proprio destino e in un
eccesso di libero arbitrio si può incorrere in tragici errori di
valutazione, come in 28 giorni dopo, film diretto nel 2002 dal regista Premio Oscar, Danny Boyle.
Nella fase iniziale del film, il cineasta britannico ci mostra le
prime fasi dell’epidemia, provocata da un gruppo di animalisti
responsabili della liberazione di alcune scimmie alle quali era stato
somministrato un virus simile alla rabbia. I risultati del loro gesto
sono presto visibili, quando Boyle ci mostra, tra sapienti inquadrature,
una Londra completamente deserta in un contesto surreale ma molto
affascinante.
È ancora l’agire incauto dell’uomo a provocare un’epidemia su larga scala in Resident Evil, film diretto da Paul W.S. Anderson nel 2004 e ispirato all’omonima serie di videogiochi prodotta dalla Capcom.
Ambientato nell’immaginaria Raccoon City, Resident Evil racconta con
abilità e successo, testimoniato dalla longevità della saga non ancora
arrivata alla conclusione, un’apocalisse provocata dalle sperimentazioni
di un’importante casa farmaceutica impegnata nella ricerca – illegale –
di armi batteriologiche. Da uno di questi esperimenti nasce il T-Virus,
ottenuto con una combinazione del DNA delle sanguisughe. Seppur
confinato in uno scenario cinematografico, e quindi di finzione, il
T-Virus spaventa perché frutto dell’avidità e della follia umana, due
caratteristiche fin troppo “reali”. Non ci stupiamo, allora, nell’
assistere alle oscure brame di potere di grosse aziende capaci di
dialogare con i governi e incidere, anche in maniera piuttosto ambigua,
sui destini di uno stato e del mondo intero.
I virus, infatti, possono propagarsi velocemente e con esiti drammatici, come ci insegna la coppia di registi spagnoli Jaume Balagueró e Paco Plaza, autori di REC, brillante mockumentary horror, sottogenere del cinema dell’orrore reso celebre da The Blair Witch Project,
dove lo sviluppo del virus è condito con un’interessante chiave di
lettura religiosa grazie agli espedienti del found footage e un finale
aperto dove molto è svelato allo spettatore, compresi i non propri
ortodossi metodi di un medico del Vaticano che, per curare un presunto
caso di possessione demoniaca, creò un vaccino instabile e altamente
pericoloso.
Gli eventi del primo film, e del sequel REC 2,
sono narrati in prima persona dagli angusti spazi di un tetro palazzo
nel centro di Barcellona, mentre nel terzo film, e soprattutto nel
quarto, vengono mostrati gli effetti incontrollabili del virus, sfuggito
alle misure di quarantena imposte dal governo spagnolo.
Abbiamo
parlato esclusivamente di virus ed epidemie che dimostrano come il
pericolo arrivi dai non morti, eppure non sempre è così, basti ricordare
The Road,
che con le pellicole già analizzate non sembra avere particolari
legami, se non fosse per quel maledetto e disperato paesaggio post
apocalittico di una terra ormai ridotta a un gigantesco e freddo
deserto. Qui il pericolo arriva dagli stessi umani che, in condizioni
disperate, danno sfogo ai più bassi e violenti istinti, fino al
cannibalismo. Il film racconta la commovente lotta per la sopravvivenza
di un padre con il suo bambino, nel malinconico scenario di un mondo
alla deriva, come in Io sono leggenda, pellicola diretta da Francis Lawrence nel 2007 e terzo adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Richard Mateson.
Il protagonista del film – Will Smith – è un virologo militare, unico
superstite di una gigantesca epidemia provocata dal virus del morbillo
geneticamente modificato e utilizzato per curare il cancro. Ed è qui
che torniamo a credere negli esseri umani, grazie all’abnegazione di un
uomo solo al mondo alla ricerca di una cura che forse non servirà mai a
nessuno.
Un’altra evidente e riconosciuta
caratteristica del cinema dell’orrore è la capacità di adattamento e
rinnovamento, sempre aperto a possibili contaminazioni, anche con generi
apparentemente agli antipodi, come la commedia. Non stupisce, allora,
un prodotto come L’alba dei morti dementi, brillante horror comedy inglese creata da Simon Pegg,
qui nei panni di Shaun, un modesto trentenne ritrovatosi, suo malgrado,
a guidare un gruppo di superstiti in fuga da un’orda di non morti.
Un eroe per caso, come Columbus, protagonista di Benvenuti a Zombieland,
altro mirabile esempio di commedia a tinte horror. In questo film,
dagli scenari apocalittici riempiti con irresistibili gag, l’epidemia è
stata provocata dal morbo della mucca pazza, così come fu ribattezzata
una malattia degenerativa che colpiva i bovini e che nei primi anni del
duemila provocò una vera psicosi collettiva. Forse anche esagerata.
La
passione cinematografica per virus, epidemie e zombie, infine, ha
trovato riscontro anche sul piccolo schermo, grazie alla Serie TV The Walking Dead, ideata dal regista Frank Darabont e ispirata agli omonimi fumetti di Robert Kirkman,
produttore esecutivo del programma. Giunta ormai alla sesta stagione,
senza mai chiarire le origini del contagio, The Walking Dead racconta la
quotidiana lotta per la sopravvivenza di un gruppo di persone guidate
da un ex sceriffo della Georgia.
Narrare di virus
“fantasiosi” aiuta lo spettatore, cullato e al sicuro all’interno di
rassicuranti sale cinematografiche o nel focolare domestico, eppure gli
eventi storici del passato testimoniano come i rischi di un’epidemia, di
qualsiasi tipo, siano concreti e minacciati dagli uomini stessi, con il
rischio di attacchi batteriologici, e non solo, sempre vivi. Allora,
forse, saranno gli zombie a dover temere gli umani e la loro
autoproclamazione a esseri onnipotenti.