Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le
pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo
migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla]
ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso
vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla],
è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare
contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha
occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può
essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di
living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma
metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro,
nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media
tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a
come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo
stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo
proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come
vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.
Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi
(Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come
metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle
modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di
consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti
viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai
lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media
ed ai pubblici.
La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie
che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi
studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei
rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e
politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una
figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per
inquietudini diversificate.
«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti
viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che
riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso
interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).
A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive,
Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla
loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in
linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla
rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con
evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli
anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non
mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi
dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati
dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto
vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata,
rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente,
attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero
con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.
Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è
diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei
morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine
all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e
sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche.
L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo
ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società,
la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai
processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano
così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato
contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è
sempre più possibile per le persone finire in uno status di
“non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).
Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi),
secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria
dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie
vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano
nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […]
tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre
ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso
l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la
propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero
gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro
che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di
morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).
Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate
in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle.
Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi
sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in
difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di
anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e
ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi
sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni
giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati
occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè
tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione.
Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è
garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre
pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S.
Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).
Lo
zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico
ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche
come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi
degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe
ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i
rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di
quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto).
I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo
sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori,
una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il
lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta
di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti
gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi
[…], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del
consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un
mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto
al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).
A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è
possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste
nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al
fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo
classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo
postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un
vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di
consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).
Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello
zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa
riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei
media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a
come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.
A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che
lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un
processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media.
I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto
“ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di
un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe
praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale,
tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate
produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai
videogame ai fumetti.
Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta
alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel
film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di
Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione
radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio,
anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle
parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola –
ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene
incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi
mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il
soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale,
tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di
trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio,
quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del
tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.
Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere
di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto
vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di
zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza
come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare
(1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene
che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre
più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione
elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma
del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra
questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua
declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi
una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti
asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro
orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel
corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità»
(p. 76).
Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead,
2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei
media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie
attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso
immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e
vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che
viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli
della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello
testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media
come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un
ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana
delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento
degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione,
rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali
sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il
corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei
media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi
metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di
“ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella
quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati
dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp.
78-79).
I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si
corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre,
continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media)
e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione,
permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo
modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici
(gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti
principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in
vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti
media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past)
a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network,
anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano
“ricomparire” in contenti imprevisti.
La
metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il
mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale
ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set
narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che
all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del
reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni
«si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”,
in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese
mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo
sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle
“necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il
rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche
professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e
delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono
prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come
zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono
ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono
soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro
volta zombificate.
David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism)
sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi,
molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della
produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di
classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso,
molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il
consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai
processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set
può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al
processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche
quello dei lavoratori dei media.
A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work)
sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo
venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe
telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo
contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti
della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da
sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience,
secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma
non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di
consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga
[…] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai
consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che
lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il
proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie
ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere
prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare
quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).
Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni
Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo
riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti
sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora
dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo
sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour,
dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli
utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un
riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e
la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori:
laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale,
altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato,
un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno
spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di
governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di
cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una
piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).
In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality
divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella
flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita
contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo
introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media),
ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito
la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai
lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove
imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli
progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i
lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un
regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che
indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).
I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche
neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti
al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati
all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione,
all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono
fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e
nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente,
porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance
dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente
sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella
produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality
non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla
durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente
ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di
celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro
performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.
La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai
personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si
focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio
Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo
discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di
Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics.
La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un
leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della
zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire
diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi
ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche
(soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la
“viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso
tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo”
come commodification e lifestyle politics, “specchio”
di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi
decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite
dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere
la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema
politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per
sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro
tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il
pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo
compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in
guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di
scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre
di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.
Focalizzandosi
sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo
venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò
avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set:
dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie
inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal
“pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della
tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese”
viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a
consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della
televisione.
Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set,
possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene
che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo,
appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin
dalle origini, al centro della communication research. Nella
cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti
persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva
ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto
sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui
già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli
effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei
media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo
studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia
tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione
“contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la
“teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come
l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa
strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies
anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato
limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano
all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham
insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.
In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio),
ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un
corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad
insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo),
studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza
pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono
somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di
usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa
coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”.
Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di
“quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da
non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello»
(pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri
schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è
privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto
facendogli credere di poter acquistare.
Boni affronta quel processo che può essere definito di
“romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di
“pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo
caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno
spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è
di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger
Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel
fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un
senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi
che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano
come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo
avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo
esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i
principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo
spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per
ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito,
né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura
“critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici
culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo
alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico
di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di
deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le
pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione
dominanti.
La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a
costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto
spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?)
si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da
parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano
chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti
casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e
senza consapevolezza.
Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame
casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi
mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a
cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks,
quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per
mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado
come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall
Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del
neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e
delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una
“de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti
lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della
città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare
quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).
Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni,
tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture
“romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro
trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso
oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero
rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e
tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle
contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda
da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive –
lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades
non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di
richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano
nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un
riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una
possibile alternativa» (p. 157).
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